La Sardegna di oggi per la Memoria di domani
 

(No) way out – Abbiamo davvero necessità di giustificare la migrazione per accettarla?

Da dove vieni ma, soprattutto, perché?

Il termometro dell’accoglienza del migrante è legato spesso all’interrogarsi sulla condizione di vita dalla quale scappa.

La distinzione tra il semplice migrante e il richiedente asilo sembra essere vincolante nel permetterci di accogliere.
Ma davvero la migrazione può essere accettata solo e se alla sua origine c’è un dramma “certificato”?


Era una sera fredda, ma il vento aveva spazzato via l’umidità della settimana passata.

Ian non sentiva più freddo, aveva dimenticato cosa fosse.

Dal pub all’angolo arrivava ovattata la musica di archi e contrabbasso, nel week end di fine gennaio in cui tutta la città tenta di risvegliarsi con le note del folk tradizionale, dentro e fuori da Temple Bar.

20 anni prima le stesse note lo accolsero.

20 anni prima, Ian, prima di essere Ian, era stato qualcun altro.

Aveva scordato quasi tutto, ma quella musica e la solitudine attorno lo riportavano indietro.
Scacciò dalla mente il pensiero più triste, il senso di perdita e lo smarrimento.

Affrettò il passo, come per sfuggire al richiamo della memoria, e si lasciò alle spalle Temple Bar.

Oltrepassò il piccolo arco e si diresse verso l’Half Penny bridge.

Un barbone all’ingresso del ponte, e uno al capo opposto.

La lercia testimonianza che la povertà bagna entrambe le sponde del Liffey.

Ma sull’Half Penny tutto era possibile.

Sospeso al centro del ponte poteva sentire i suoi pensieri farsi leggeri e prendere colore, lontano dal triste grigiore dei suoi estremi.

Trovò O’Connell street ancora più desolante del solito.

I tempi in cui la tigre d’Europa ruggiva e fiorenti attività commerciali riempivano le sue strade erano lontani.
Il 4 era in ritardo, as usual.

Decise di risparmiarsi qualche fermata, e camminare sino a Parnell Sq, sicuro di non perdere comunque il bus che l’avrebbe riportato in quella topaia.

Fu lì che arrivò, sordo alle sue spalle, il fragore che lo fece sussultare, e il sussulto lo portò indietro di 22 anni.

Era il 1994, quando un colpo di mortaio aveva squarciato in due la sua vita.

Allora aveva sentito un vuoto incolmabile, tutto in un istante, e la netta sensazione di aver perso qualcosa o, peggio, qualcuno.

Di lì a poco avrebbe scoperto di non sbagliarsi.

I due anni di assedio di Sarajevo avevano insegnato a Tarik ad acquattarsi in un istante. Acquattarsi, studiare il campo attorno a sé e, se fosse stato sicuro di non essere sotto tiro di qualche cecchino, rialzarsi presto e correre, correre più veloce possibile verso il primo posto sicuro.

E così Tarik aveva tirato su la testa, socchiuso gli occhi per la polvere che proveniva dalla strada accanto, e respirato a fatica per l’odore acre che gli invadeva le narici.

E allora Tarik aveva corso, con tutta la forza di cui era capace.

Oggi, 22 anni dopo, la sua schiena tornò a tremare come allora.

Come allora, si ritrovò a terra in un attimo. Sentì delle grida provenire dalla strada vicino, e si trovò faccia a faccia con un altro uomo.

Si ricordò di lui, l’aveva visto qualche attimo prima dall’altro lato della strada.

La stessa abitudine al terrore nei loro occhi.

Si rialzarono insieme, dandosi la mano, ma stavolta non fu necessario correre.

“Emil…”

“Tarik” non riuscì a correggersi in tempo, era la prima volta che pronunciava il suo nome, l’altro nome.

Qualche ora più tardi, e parecchie birre dopo, scoprirono che il grande boato era stato causato da una fuga di gas in un magazzino dietro O’ Connell st, nessuna vittima.

E si raccontarono le loro ferite.

Ian, prima di essere Ian, era Tarik, Bosniaco di Sarajevo, orfano dal 5 febbraio 1994, quando sua madre andrò al mercato di Markale, e non fece più ritorno, così come era capitato qualche mese prima a suo padre.

Emil, serbo di Novi Sad, era figlio di un soldato che aveva combattuto accanto al generale Mladic, caduto in guerra durante la campagna della NATO del 1994.

Così distanti per provenienza, così vicini per tutto la mole di dolore patito.

Tarik in giro per l’Europa in un lungo via vai di affidi e adozioni.

Emil, di qualche anno più grande, nella vicina Inghilterra a fare ogni tipo di lavoro possibile, sino a pochi mesi prima, quando aveva sentito il richiamo della verde campagna d’Irlanda.

Tarik tornò solo una volta a Sarajevo, quando scappò in lacrime davanti alle rose di resina rossa lasciate in ricordo dello scoppio delle granate.

Emil non tornò mai nella sua Novi Sad, dove ancora lo attende sua madre.

Emil e Tarik.

Qualche pinta ciascuno, tanto dolore alle spalle e poche risposte per le tante domande che avrebbero voluto rivolgersi, ma per le quali ad entrambi mancò il coraggio di porle.

Tarik era scappato da una guerra, ed Emil dai fantasmi del proprio passato.

Ora, nel silenzio, cementavano la loro fuga, oltre le barricate, oltre i confini.


Chi affronta oggi interminabili e disperati viaggi per approdare nella nostra terra, fugge dalla devastazione di una guerra, ma fugge anche dalla fame come è capitato di fare ai nostri emigrati decine di anni fa.

Da cosa scappino, quali siano state le loro pene, cosa abbiano lasciato alle loro spalle, e quanto duro sia stato il cammino, glielo leggiamo negli occhi.

Ecco perché l’iniziativa della squadra dei rifugiati alle ultime olimpiadi, è stata un non-sense.

Come scrive Andrea Coccia su l’inkiesta.it:

“Questa è un’operazione che butta tutto in favoletta senza accorgersi — o facendo finta di non accorgersi — di replicare la solita vecchia dinamica coloniale: l’élite bianca e ricca che, grazie al suo buon cuore e alla sua magnanimità, dà la possibilità a dei poveretti sfortunati di gareggiare “come tutti gli altri”.

Ma queste dieci persone non sono come tutti gli altri. E non soltanto nei loro paesi d’origine. Non sono come tutti gli altri soprattutto nei paesi dove sono stati accolti, paesi in cui cresce la xenofobia e la stigmatizzazione dello straniero e del diverso.” (http://www.linkiesta.it/it/article/2016/08/11/la-squadra-olimpica-dei-rifugiati-unidea-razzista-e-colonialista/31458/)

Un giorno, forse, gli uni e gli altri si confonderanno.

© istranzu in terra anzena