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Mommsen e i bari della storia sarda

Theodor Mommsen, il grande storico di Roma antica e premio Nobel nel 1902 per la letteratura, era convinto che i sardi avessero una particolare propensione alla falsificazione. Così quando, nel 1877, si trattò di raccogliere le epigrafi sarde per il suo Corpus Inscriptionum Latinarum (la raccolta delle iscrizioni latine conosciute), invece di avvalersi di corrispondenti locali, decise di farlo di persona. Le ragioni di tanta diffidenza risalivano a una vicenda accaduta sette anni prima, nel 1870, quando Mommsen, da presidente dell’Accademia di Berlino, aveva dato un contributo decisivo a dichiarare che le cosiddette Carte d’Arborea erano non solo un falso, ma un falso grossolano. Un falso pensato e realizzato in Sardegna.

Il sospetto che quelle pergamene che rivoluzionavano le conoscenze storiche e ponevano la Sardegna al centro della cultura europea non fossero autentiche era stato avanzato subito dopo che, nel 1845, frate Cosimo Manca di Pattada ne aveva annunciato la “scoperta”. Ma sugli scettici avevano per anni prevalso gli entusiasti. Si trattava di un imbroglio. Ma era, come lo definì Francesco Masala, “un romantico, colossale imbroglio, fatto sotto il segno dell’amore per la ‘piccola patria’ sarda…”. A dire il vero, l’amore patriottico era duplice: per la Sardegna e anche per l’Italia. Assieme, stando a quelle pergamene, in pieno Medioevo erano state all’avanguardia della civiltà umanistica europea.

Nel confronto sull’autenticità della Carte questi sentimenti patriottici s’intrecciavano con le argomentazioni scientifiche. E ciò aveva contribuito ad accentuare la diffidenza di Mommsen e dei suoi occhiuti colleghi dell’Accademia di Berlino i quali nutrivano la convinzione, che oggi tutti riterremmo ingenua, che scrivere la storia di un’epoca significasse semplicemente comporre in una sorta di puzzle le diverse fonti disponibili: lo storico come un paleontologo che mette assieme i vari frammenti e ricostruisce lo scheletro del dinosauro. D’altra parte per avere all’epoca una visione diversa era necessario compiere balzi arditissimi e dolorosi, fino a rischiare di perdere il senno. E magari, come il più grande dei dotti tedeschi di quella fine di secolo, Friedrich Nietzsche, autoinfliggersi il marchio della follia abbracciando un cavallo maltrattato dal cocchiere nel centro di Torino.

Mommsen era uomo di tutt’altra pasta. La vicenda delle Carte d’Arborea l’aveva portato a trarre conclusioni definitiva sull’inaffidabilità dei sardi. Decise dunque di raccogliere direttamente le epigrafi e partì per la Sardegna. Sapeva perfettamente che quel suo giudizio di sette anni prima sulle Carte d’Arborea non l’aveva reso simpatico negli ambienti accademici isolani. Ma il fatto che quello fosse anche un viaggio in partibus infidelium rappresentava un’attrattiva in più per il sulfureo professore. Che, probabilmente, restò sorpreso. Storici e letterati sardi non solo lo accolsero con tutti gli onori, ma piegarono il capo di fronte alle sue frustate. Tornò in più occasioni sulla questione della Carte. Senza diplomazie. Voleva far “capire ai veri patrioti sardi che il primo loro dovere è di smascherare qualunque frode viene a imbrattare la santa e schietta Storia antica”. A queste e altre dure parole che pronunciò nel corso degli interminabili banchetti in suo onore, gli stessi studiosi che avevano salutato le Carte d’Arborea come la nuova primavera della storiografia sarda reagirono col silenzio. Forse erano presenti anche coloro che quelle carte avevano prodotto, giorno dopo giorno, con certosina pazienza. Tutti piegarono la testa, levarono il bicchiere in onore dell’ospite, immaginando in cuor loro improbabili future vendette. Ma non sappiamo, e non sapremo mai, se quest’altra modalità di falsificazione Theodor Mommsen l’abbia capita.

Luciano Marrocu