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Melkiorre Melis alla corte di Balbo

Quando Italo Balbo, nel 1934, lo chiamò a Tripoli, Melkiorre Melis aveva ben poco nella sua produzione di pittore e ceramista che riconducesse all’Africa: animali esotici in terraglia e un contenitore, anch’esso in terraglia, sormontato da una splendida “acquaiola africana”. Era però titolare, a Roma, di un’avviata impresa artigiana per la produzione di ceramiche artistiche e questo ne faceva l’uomo giusto a cui affidare la Scuola Artigiana di Ceramica Libica che, nelle intenzioni di Balbo, appena nominato governatore della Libia, doveva essere la sezione più innovativa della Scuola Musulmana di Mestieri ed Arti Indigene.

Come è noto Balbo, che non aveva affatto gradito la destinazione a Tripoli, riunì intorno a sé una cerchia di amici e di fedelissimi, tra i quali un gruppo di artisti, per lo più originari della sua città, Ferrara. Quello che all’inizio era apparso solo un vezzo narcisistico, col passare degli anni si trasformò in un progetto politico. Si trattava di dare un volto nuovo a Tripoli. Di fondare uno stile coloniale autenticamente italiano.

Melkiorre Melis era nato a Bosa, nel 1889, in una famiglia quanto mai “artistica”. I tre Melis maschi si muovevano tra pittura e ceramica e la sorella Olimpia era un’imprenditrice tessile di gusto raffinato. Melkiorre era stato avviato alla pittura da un artista parmense, Emilio Sherer, per molti anni attivo a Bosa, ma intorno ai vent’anni aveva sentito il bisogno di affinare la sua formazione frequentando l’Accademia di Belle Arti di Roma. Iniziò allora una vicenda professionale che lo vide praticare diverse tecniche: pittore “da cavalletto”, è però anche illustratore, ceramista, decoratore di interni, allestitore di importanti mostre, tra cui la sezione sarda della prima Biennale delle arti decorative ospitata a Roma dal Palazzo delle Esposizioni.

L’incarico tripolino è dunque un riconoscimento sia per l’artista, sia per l’organizzatore. Anche se, quando deve mettere mano alla faccenda della “ceramica libica”, Melkiorre Melis si rende conto di quanto sia difficile il compito che gli è stato assegnato. “Giunto a Tripoli – avrebbe ricordato anni dopo – mi resi conto che in tutta la Libia non esisteva alcuna produzione nel campo della ceramica. Solo all’interno si producevano anfore e vasi di comune primitiva terracotta; le maioliche che adornavano le moschee erano state importate da Tunisi”. La verità, probabilmente, è che non aveva né il tempo, né la voglia di andare alla ricerca di una ceramica libica tradizionale che, con un po’ di impegno, alla fine avrebbe trovato.

Ma non resta comunque con le mani in mano: va a Tunisi dove, al museo del Bardo, scopre le maioliche e le mattonelle decorate che eleggerà a modello della produzione da avviare nella sua Scuola Artigiana. E non si limita all’organizzazione della Scuola, ma è lui stesso a disegnare una linea di artigianato artistico che comprende tessuti, piastrelle, pantofole, mobili, oggetti in cuoio. Si avventura anche nel disegno degli arredi e dellle decorazioni di un caffè-chantant di Tripoli: un progetto, questo, vicino al gusto più di un orientalista vecchio stile che al marmoreo italiano imperiale sognato da Mussolini.

Il caffè-chantant nel 1940 sarà uno dei centri d’attrazione del padiglione libico affidato a Melis nell’ambito della grandiosa Mostra d’Oltremare di Napoli. Forse l’artista vede in quel suo padiglione (e ancora di più nella produzione della Scuola Artigiana di Ceramica) la proposta di un decor coloniale capace di conquistare in un futuro non molto lontano il gusto degli italiani. Coltivasse o meno quest’idea, il corso che prese la guerra, determinò la decisione di chiudere la Mostra d’Oltremare e accelerò la fine del colonialismo italiano e con essa dei sogni, piccoli e grandi, che avevano accompagnato la sua espansione.

Luciano Marrocu