La Sardegna di oggi per la Memoria di domani
 

Le medie inferiori dell’occupazione

Siamo in autunno, che è prima di tutto la stagione in cui iniziano l’anno scolastico e quello accademico. In questa stagione si discute con insistenza del rapporto tra istruzione e lavoro, percepito come troppo debole o incerto: si dice che la scuola è distante dal mondo del lavoro e che l’università non prepara ad una professione, che l’acquisizione di un titolo di studio non agevola la ricerca di un’occupazione, né migliora le probabilità di trovarne una stabile. è invalsa da tempo l’abitudine di misurare il valore dell’istruzione sulla base del valore di mercato dei titoli di studio, cioè a seconda della loro spendibilità in termini di inserimento lavorativo e di retribuzione. La prospettiva economica sembrerebbe l’unica idonea a valutare se conviene o meno proseguire gli studi fino al diploma o alla laurea.

Non c’è spazio per una considerazione della rilevanza sociale dell’istruzione, del ruolo cruciale che riveste nella vita delle persone e nelle loro relazioni, nelle opportunità di scelta, nelle capacità di muoversi con autonomia e sicurezza, di inserirsi nella società e avere un’esistenza gratificante. L’istruzione ha un valore in sé e un’utilità che va ben oltre la finalizzazione di tipo professionale ed economico: non deve servire a qualcosa, deve esserci. Per spiegare questo, qualche anno fa, Andrea Bajani ha scritto un bel libro che s’intitola “La scuola non serve a niente” (Laterza, 2014). Ciò non significa che istruzione e lavoro non hanno legami, semmai è vero il contrario: un buon livello di istruzione è la base fondamentale su cui costruire buone competenze professionali. Nessun titolo di studio si traduce immediatamente in un mestiere, ma un buon titolo di studio è necessario per fare bene qualsiasi mestiere.

In Italia, e ancor più in Sardegna, questa base fondamentale è insufficiente e inadeguata rispetto agli obiettivi che un paese avanzato avrebbe già dovuto raggiungere e consolidare. Se consideriamo la popolazione tra i 25 e i 64 anni, che in larga parte ha concluso il percorso di istruzione, ci troviamo di fronte a dati veramente sconfortanti. In Italia, solo dal 2011 la quota di diplomati ha superato quella delle persone con la licenzia media: fino a cinque anni fa eravamo ancora “il paese della terza media”, e non siamo andati molto lontano, perché la diffusione del diploma ha distanziato di pochi punti percentuali quella del tradizionale “titolo dell’obbligo”. Ci sono addirittura quattro regioni in cui la licenza media è tuttora il titolo di studio prevalente: Campania, Puglia, Sicilia e Sardegna. La Sardegna ha la quota più elevata in assoluto di persone che hanno conseguito al massimo la licenza media: sono 404mila, pari al 42,7 per cento della popolazione tra i 25 e i 64 anni. La media italiana è 33 per cento.

Qualche confronto con le regioni europee può darci una misura più precisa delle distanze che dovremmo colmare. Tra le centinaia di regioni che compongono l’Europa, quelle italiane si collocano tra le regioni con i livelli di istruzione più bassi: sono allineate a quelle turche, greche e a qualche zona del Portogallo. Se consideriamo la popolazione economicamente attiva tra i 25 e i 64 anni, la regione italiana con la quota più elevata di laureati (il Lazio, con il 26,9 per cento) è lontanissima dai livelli delle regioni più avanzate come quelle del Regno Unito e dei Paesi Scandinavi, ma anche di alcune regioni della vicina Spagna: nei Paesi Baschi c’è il 52 per cento di laureati, nella regione di Madrid il 50 per cento, nelle Asturie il 46 per cento. La Sardegna ha solo il 18 per cento di laureati, la Corsica il 41 per cento (Eurostat 2015).

In Sardegna più della metà (54 per cento) delle persone in cerca di lavoro ha un livello di istruzione molto basso: 7mila disoccupati hanno al massimo la licenza elementare, 57mila la licenza media (Istat 2015). Si è creato così un circolo vizioso per cui una parte consistente della popolazione non ha né istruzione né lavoro.

Lilli Pruna

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