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L’ambigua meteora del sardo-fascismo

Quando, nel marzo del 1923, Paolo Pili, allora segretario del Partito sardo d’Azione, concluse l’accordo di fusione col Partito Nazionale Fascista, solo una minoranza dei suoi compagni lo giudicò un traditore della causa. Per la maggioranza del Psd’Az, Pili divenne l’abile stratega che avrebbe portato il sardismo a realizzare i suoi obiettivi.

Una manovra coordinata da Mussolini in persona. Il Duce inviò a Cagliari, come prefetto, il generale Asclepio Gandolfo, medaglia d’argento al valor militare nella Prima Guerra Mondiale, ma fedelissimo al regime (l’anno successivo, dopo il delitto Matteotti, diventò il capo della Milizia): l’uomo giusto per convincere un partito formato in grandissima parte da reduci della Grande Guerra. Infatti, fin dalle prime riunioni in prefettura, Gandolfo ebbe cura di evocare le antiche solidarietà di trincea e avanzò proposte che suonarono precise e concrete alle orecchie non solo di Pili, ma della maggior parte dei dirigenti sardisti. Lo stesso Emilio Lussu, che pochi mesi dopo vi si sarebbe opposto, avviando il suo percorso coerentemente antifascista, in un primo tempo fu attratto dalla “fusione”.

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