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La disuguaglianza è anche digitale

Non c’è alcun dubbio sul fatto che le tecnologie per l’informazione e la comunicazione (indicate con l’acronimo inglese ICT) hanno migliorato la vita di una parte significativa della popolazione in molti paesi avanzati. Hanno reso possibile, tra l’altro, l’accesso a distanza ai servizi delle amministrazioni pubbliche, alle informazioni su prodotti e servizi venduti sul mercato globale, alla documentazione istituzionale e alla conoscenza, alle operazioni bancarie e postali, alle prestazioni del servizio sanitario, e hanno reso più agevole la partecipazione alla vita pubblica. Hanno anche creato nuovi posti di lavoro e cambiato gran parte delle occupazioni esistenti. In Italia gli occupati nelle professioni ICT (quelle che sviluppano e utilizzano sistemi ICT ma anche quelle per le quali le ICT sono parte essenziale del lavoro) sono stimati nel 2016 in 750mila persone, in costante aumento negli ultimi anni, malgrado la crisi. Più della metà degli occupati in professioni ICT risulta impiegata in settori non-ICT, a dimostrazione della pervasività delle nuove tecnologie (Giorgio Alleva, presidente ISTAT, Audizione alla Commissione “Lavoro e Previdenza Sociale” del Senato, luglio 2017). Ciò significa che le “competenze digitali” devono essere possedute da tutti i lavoratori, poiché tutti i lavori le richiedono.

E tuttavia, il quadro evolutivo del mercato del lavoro presenta aspetti apparentemente contraddittori. Sempre secondo l’Istat, negli ultimi anni (2011-2016) si possono individuare 27 professioni “vincenti” (con variazioni positive dell’occupazione superiori alle 20mila unità, per un aumento complessivo di 1,6 milioni di unità) e 24 professioni “perdenti” (con variazioni negative dell’occupazione superiori alle 20mila unità, per una diminuzione complessiva di poco più di 1 milione di unità). Tra le “vincenti” prevalgono occupazioni che hanno ben poco a che fare con le ICT: ci sono gli addetti all’assistenza delle persone (le “badanti”, per intenderci), i commessi alle vendite al minuto e diverse professioni legate alla ristorazione (camerieri, chef e lavapiatti), professioni sanitarie riabilitative (come i fisioterapisti) e altre nei servizi sanitari e sociali. Gli occupati in queste professioni sono destinati ad aumentare, mentre potrebbe esaurirsi tra non molto la stagione dei call-center, nati e cresciuti a dismisura proprio grazie alle ICT ma esposti all’incessante processo di innovazione delle tecnologie.

Un altro aspetto contraddittorio, particolarmente rilevante per l’accesso ai servizi delle amministrazioni pubbliche e l’esercizio dei “diritti di cittadinanza digitale” (come li definisce l’Agenzia per l’Italia Digitale presso la Presidenza del Consiglio dei ministri), è il persistente “divario digitale” interno al Paese, cioè il divario esistente tra chi ha accesso effettivo alle tecnologie dell’informazione (in particolare personal computer e Internet) e chi ne è escluso in modo parziale o totale. In Italia su 57 milioni 231mila persone sopra i sei anni di età, quasi 20 milioni non usa internet. Il 35 per cento della popolazione in grado di leggere e scrivere non ha dunque accesso alla “rete” (dati Istat 2016). In Sardegna la proporzione di esclusi è la stessa: il 35,3 per cento della popolazione dai 6 anni in su dichiara di non usare internet (558mila persone su 1 milione 579mila). In sostanza, le ICT producono anche nuove disuguaglianze.

I principali fattori discriminanti nell’uso di Internet sono l’età, il titolo di studio, la dimensione del comune di residenza, la partecipazione al mercato del lavoro: i maggiori utilizzatori sono i giovani, i laureati, i residenti nelle città metropolitane e le persone che hanno un’occupazione. Le caratteristiche della Sardegna (pochi giovani, pochi laureati, poche aree urbane di grandi dimensioni e poca occupazione) dovrebbero produrre una quota di utilizzatori delle ICT non elevata, invece l’Isola si posiziona ben al di sopra dei valori medi del Mezzogiorno e si allinea al Centro-Nord. Un’altra contraddizione.

Lilli Pruna

 

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