La Sardegna di oggi per la Memoria di domani
 

Il tuffo del passato

Prima un passo, poi l’altro. Quindi il salto nell’acqua salata. Sicuramente è un giorno di primavera o d’estate. Quell’uomo (o quella donna?) non oserebbe tanto se la temperatura del mare non fosse dolce. Perché a guidare quei passi, per la prima volta, non c’è alcuna necessità. Non fugge né da un incendio, né da un nemico, non deve raggiungere la sua barca per partire alla ricerca di cibo. È un tuffo per puro piacere, l’archetipo dei milioni di tuffi spensierati che solo dagli anni Sessanta del secolo scorso sono diventati abitudine. I Sardi hanno scoperto molto tardi che nel mare si può anche, semplicemente, fare il bagno.

Chissà quando avvenne quel primo tuffo e chi fu quell’uomo o quella donna. Se si trattava di un sardo nativo o di un forestiero di passaggio. Un invasore. Chissà se viveva sulla costa e dunque il mare era la fonte del suo cibo, la via dei suoi commerci, il teatro delle sue battaglie, o se invece non era né un pescatore, né un mercante, né un guerriero e aveva raggiunto il mare dopo una lunghissima marcia col suo gregge. Chissà se quel primo tuffo fu il frutto di un amore maturo, cresciuto nella vicinanza col mare, o di un innamoramento improvviso e travolgente, preceduto solo da sguardi fugaci lanciati dalle cime dei monti.

 

La nostra indagine comincia dal passato remoto, tra l’Età del Bronzo e l’Età del Ferro, più di 2500 anni fa. Sappiamo che in quell’epoca gli abitatori dei nuraghi costruivano e varavano delle navi e ne conosciamo la forma perché ci sono arrivate circa settanta miniature in bronzo, le navicelle nuragiche. Non erano oggetti votivi realizzati per accompagnare la navigazione dei morti – come per molto tempo si è creduto – ma veri e propri modellini di robusti natanti capaci di attraversare il Mediterraneo da Oriente a Occidente. A questa conclusione si è arrivati tardi perché l’idea dei Sardi asserragliati nelle zone dell’interno è stata per anni dominante anche tra gli studiosi. Impossibile, però, sapere se tra i commerci e le battaglie, le bonacce e le tempeste, ci fosse anche il tempo per il semplice, disinteressato, piacere del mare.

I Nuragici non realizzavano solo le miniature delle navi, ma anche quelle di se stessi, attraverso le quali ci hanno raccontato molte cose della loro vita. Abbiamo bronzetti che ci mostrano i capi religiosi e militari delle tribù, i soldati (arcieri, soprattutto), i mestieri (artigiani e contadini) e anche i piaceri della vita quotidiana: dallo sport (la lotta e il pugilato) alla musica. Abbiamo un bronzetto che soffia dentro un corno, un altro che suona un flauto triplo. Ma non esiste un bronzetto-nuotatore o un bronzetto-tuffatore.
Eppure non c’è alcun dubbio che i Nuragici sapessero nuotare. E non solo perché erano anche marinai e i marinai devono saper nuotare. Il fatto è che l’uomo sa nuotare dall’Età della Pietra. Le prime tracce dell’uomo-nuotatore sono delle pitture rupestri dell’8000 avanti Cristo che sono state trovate in una grotta a Wadi Sura, nell’Egitto occidentale. Nuotavano i Greci durante le feste istmiche e nuotavano i Romani che, per definire un ignorante, dicevano “non sa né leggere, né nuotare”. Il nuoto di piacere lo praticavano nell’acqua dolce delle piscine e degli stabilimenti termali.
Dopo aver conquistato la Sardegna (nel 238 a.C.), i Romani ne costruirono diversi. Alcuni nell’entroterra – Sardara, Fordongianus, Benetutti – e tre accanto al mare: Nora, Tharros e Porto Torres. Là ci si immergeva nell’acqua dolce, ma si respirava la salsedine. Ecco, questa forse è una pista da seguire. Anche se non si trattava solo di raggiungere la battigia e fare prima uno, poi un altro passo. Era un grande salto quello dalla piscina alle onde. Il nuoto nel mare era associato alla guerra, alla paura: “Or il parere de’ soldati era d’uccidere i prigionieri, perché nessuno fuggisse a nuoto” (Atti degli apostoli). Però, soprattutto quello davanti a Tharros e a Nora, all’epoca era un mare sicuro, la guerra contro Cartagine era stata vinta e, dal 67 avanti Cristo, Pompeo aveva liberato l’intero Mare nostrum dai pirati. Non potevano esserci nemici all’orizzonte. C’era solo quell’enorme distesa blu, increspata dal bianco della spuma.

Un altro indizio, immagine e testimonianza, lo troviamo in un mosaico a Piazza Armerina, in Sicilia. Qualcosa di simile c’è anche a Pompei: donne in bikini. Già, nelle piscine termali le signore usavano un costume da bagno molto simile a quello che avrebbe fatto scandalo duemila anni dopo.  Se c’era qualcuno che poteva distinguere il mare dal dolore, dalla memoria della guerra, erano proprio loro. Per i maschi il nuoto era una disciplina dell’educazione militare. Con l’invenzione delle naumachie erano stati capaci – realizzando opere ciclopiche – di trasferire le battaglie navali all’acqua dolce. Solo una donna poteva concepire il percorso contrario: trasferire il piacere dell’acqua dal dolce al salato. Insomma, forse è stata una ragazza di Porto Torres, di Tharros o di Nora – un giorno di primavera o d’estate – il primo sardo a provare la gioia del mare.

Passano i secoli, si divide l’Impero. Dal Tirreno medievale non arriva il rumore dolce della risacca, ma una sequenza ininterrotta di agguati: dalla prima incursione araba a Sant’Antioco nel 705, al tentativo di invasione nel 1015 del Califfato di Cordova, sventato dall’intervento di Pisa e Genova. Gli attacchi dei pirati proseguono e nell’età dei Giudicati le torri costiere, che i Sardi costruivano ormai da sei secoli, sono già una sessantina. Non bastano. Nel XIV secolo gli attacchi sono diventati così intensi che, dopo il saccheggio dei pirati barbareschi di Quartu Sant’Elena e Pirri, Filippo II di Spagna istituisce, a Cagliari, la Reale amministrazione delle torri. Che arrivano a essere 105, ma di molte si è persa la memoria e il computo non include postazioni mobili di vedetta introdotte dagli spagnoli e conservate dai piemontesi. Le torri continuano ad avere una funzione difensiva fino al 1815 quando l’Inghilterra e la Russia obbligano i bey del Nord Africa ad adeguarsi all’abolizione della schiavitù e dunque della pirateria: è la fine delle incursioni. Ecco perché nella nostra ricerca compiamo questo grande balzo storico dall’Impero romano all’Unità d’Italia. Un anno dopo, per la precisione. Siamo infatti nel 1862, ad Alghero, avamposto catalano sulla costa occidentale: dove il sole resta alto fino a tardi. Un’idea del sindaco, forse un suggerimento arrivato dalla vecchia capitale, Barcellona, dove sotto il Montjuic, dal 1829 esisteva una casa de baños – o da qualche algherese che aveva viaggiato per l’Italia. A Livorno, in Toscana, fin dal 1780 c’erano i “Bagni Baretti”, a Trieste e poi a Venezia erano state realizzate piattaforme galleggianti. Da nord a sud: a Napoli, nel 1830, erano nati i primi stabilimenti balneari che esistevano già nell’Adriatico marchigiano e lungo il litorale laziale e ligure. Una proliferazione cominciata in Europa a partire da Brighton, in Gran Bretagna, dove nel 1753, sir Richard Russell, con la sua fondamentale opera The use of sea water, aveva introdotto la talassoterapia.

Così, il primo di luglio di quel 1862, all’interno del porto di Alghero, viene inaugurato il primo stabilimento balneare sardo. Lo chiamano, forse con un intento autoironico, “Il Bagnetto”. In effetti non ci si stava a lungo: appena un’ora, poi via. Era questa la ricetta di sir Russell. Così rigorosa da essere addirittura inserita nel regolamento. Non solo il “bagnetto” era breve, ma il luogo dove lo si praticava era piuttosto piccolo: una palafitta in legno, da raggiungere con delle barche, ospitava gli spogliatoi, una sala d’aspetto arredata con dei divani, e il guardaroba con la dotazione di asciugamani e lenzuola bianchi. La stagione cominciava a metà giugno e finiva a settembre – quando la palafitta veniva smontata – tutti i giorni dalle 6 del mattino al tramonto. I villeggianti erano famiglie borghesi per la maggior parte provenienti da Sassari e dai paesi del nord dell’Isola. “Il Bagnetto” era una calamita per i benestanti, attratti dai tornei di carte e i frequenti concerti serali.

Sarà stato forse lì, al “Bagnetto” di Alghero, che il primo Sardo si tuffò in mare per il solo piacere di farlo? Possiamo dire che, al netto del rigido ordinamento e delle ferree prescrizioni dei discepoli di sir Russell, è stato certamente quello il luogo dove, sia pure con la mediazione della medicina, in molti hanno associato il mare al benessere fisico. Che non è esattamente il piacere, ma ne è la precondizione. Come suggerisce una rara foto dell’epoca che ci mostra tre giovani immersi nell’acqua del mare. Sono abbracciati tra loro. Su, dalla palafitta, un gruppo di amiche e amici ne osserva le prodezze. Tutti sorridono. Sullo sfondo si vedono due bagnanti; o meglio, le loro teste. Ma è evidente che quei due stanno nuotando. Non saremmo davanti ai primi Sardi che si godettero il mare, ma forse siamo davanti ai primi che furono fotografati mentre se lo godevano.

Il capoluogo non è rimasto a guardare. Anzi, solo per poche settimane Cagliari non è la sede del primo stabilimento balneare sardo. I “Bagni Carboni”, da un’idea di don Michele Carboni, aprono in quella stessa estate del 1862, ma un po’ dopo la palafitta di Alghero. E quindici anni più tardi, siamo nel 1879, un altro imprenditore dalla vista lunga, Giovanni Devoto, inaugura il lido “Città di Cagliari” al ponte de Sa Scaffa, località La Playa. Sarà una meta ambita dalla cosiddetta alta borghesia fino al 1908 quando, ed è un primato di cui non farsi gloria, scatta il divieto di balneazione per motivi sanitari: lì a pochi metri da tanta raffinatezza, sfocia lo scarico della fogna. Poco distante, a Giorgino, un altro esperimento ancora: quello di Vincenzo Soro.
Il tempo glorioso del Poetto – la futura “spiaggia dei centomila” – comincia assieme al Novecento. Tra il 1913 e il 1914 aprono due stabilimenti: uno è “Il Lido” – di Gaetano Usai, cognato di don Michele Carboni – l’altro è quello che di lì a poco sarà aperto dai figli del solito don Michele e che in seguito la famiglia D’Aquila rileverà dandogli il nome che tutt’ora conserva. Al Lido viene costruita – prima in legno, poi in muratura – la celebre rotonda, luogo di feste danzanti, di tuffi spericolati. L’acqua, lì sotto, è bassissima, ma c’è chi si cimenta nella pericolosa impresa. E abbiamo qualche dubbio sul fatto che quel genere di slanci guasconi possa rientrare nella categoria del “piacere del mare”.
Già, perché la conquista del mare da parte di questa avanguardia ancora minoritaria, appare un accessorio alla conquista della spiaggia come luogo di incontri sociali e di giochi. D’altra parte, si entra in acqua ancora quasi vestiti. Per le donne calzone con giubba blu, per gli uomini maglia intera o mezza manica. Al sole è consentito di baciare solo pochi centimetri di pelle: resiste, per le donne, il canone estetico dell’incarnato latteo. La parola “costume” evoca ancora la sagra di Sant’Efisio.
Più che l’appropriarsi del rapporto con l’acqua salata, questa progressiva conquista porta alla realizzazione di sistemi sempre più comodi per raggiungere il mare. Nel 1924 verrà inaugurato il trenino a vapore, poi sostituito dal tram elettrico. La spiaggia di Cagliari diventa facilmente raggiungibile e per questo “popolare”. Nascono i primi casotti, prototipo di quelle seconde case che, all’epoca, si possono permettere solo le famiglie più abbienti. Nonché le prime ville di quella che diventerà un’elegante passeggiata.

A Orgosolo, in quegli stessi anni, precisamente nel 1919, a un centinaio di chilometri dalla costa, nasce Maddalena Sini che oggi ha 97 anni e ha visto per la prima volta il mare dopo averne compiuto 60, ma non l’ha mai toccato. Non ha mai fatto né il primo, né il secondo passo. È andata avanti, senza alcun rimpianto, nella sua quotidianità tutta “terrestre”, come se in Sardegna il mare nemmeno ci fosse. È così: mentre tentiamo di capire se è possibile individuare il primo sardo che si è goduto il mare, scopriamo che esiste chi non se l’è goduto ancora. Tzia Maddalena non è di certo la sola. Anzi, questa totale assenza di un rapporto col mare era, fino a una quarantina d’anni fa, la condizione normale di chi viveva nell’interno. Tanto che lo scrittore nuorese Marcello Fois, se la nostra ricerca non riguardasse l’intera Isola ma solo la sua città natale, avrebbe una risposta precisa: «Non sono in grado di dire chi sia stato il primo sardo, ma conosco molto bene il primo nuorese che si è goduto il mare: mio padre».
Fois ne ha parlato in un suo libro, non a caso intitolato In Sardegna non c’è il mare, (Editori Laterza, 2008). Racconta che suo padre, il mare, lo scoprì quando era già un uomo adulto, negli anni Cinquanta in Gallura, e che ne rimase così colpito da prendere una decisione rivoluzionaria: portarci la famiglia in vacanza: “Accompagnato dallo scetticismo generale, mio padre caricava la macchina all’inverosimile per raggiungere l’altro mondo e trascorrere un mese al mare”. Arrivati a Budoni “si proseguiva col carro a buoi lungo il letto del fiume secco (…). Le ore più calde si passavano protetti da un capanno di canne, al suolo per proteggerci dalla sabbia erano distese coperte militari”.
Una memoria condivisa da un altro scrittore, ma cagliaritano, Nino Nonnis, uno dei cantori del Poetto. «Mia madre era nata a Bosa – racconta – non è mai andata al mare, neanche a Bosa Marina, che dista pochi chilometri. Mio padre mi diceva che andare al mare era un evento e se arrivavano quelli di un paese vicino, controllavano la zona con i fucili, carichi. Nessuno poteva avvicinarsi, c’erano le loro donne. Con le caviglie sporgenti». Un ricordo degli anni Sessanta che però sembra tratto dai disegni della serie di Tarquinio Sini, illustratore sassarese trapiantato a Torino negli anni Venti, che non a caso si intitola “Contrasti”. Si tratta di rappresentazioni ironiche dell’incontro tra la Sardegna rurale e folclorica e le sorelle maggiori di quelle che saranno conosciute come le pin-up: donne che si aggirano in costume da bagno sotto lo sguardo perplesso e voglioso di pastori con mastruca e cappello a falda. è l’abito tipico di Teulada, il paese dove Sini si era stabilito per un certo periodo dopo il suo rientro in Sardegna.

Sono gli anni del boom economico e nell’Isola il mare letteralmente esplode da tutte le parti. La diffusione delle automobili e delle moto consente a sempre più sardi di avventurarsi in zone di mare che al tempo sono ancora del tutto incontaminate. I loro nomi diventano popolari e familiari: Is Mortorius, Chia, la Frana, le Bombarde, la Pelosa, Putzu Idu.
Il mare, ma ancora una volta soprattutto ciò che lo precede, diventa, finalmente, “piacere di massa”. Nel suo ultimo libro del 2015 (Lizzeri. Se rinasco voglio che succeda in Sardegna, Il Pettirosso), Nonnis lo ricorda con poche pennellate: gli ombrelloni aperti al vento, le angurie a rinfrescare sotto la sabbia della battigia. Dopo il tram, adesso è l’autobus il mezzo popolare per raggiungere il Poetto. I diversi tratti di spiaggia vengono individuati attraverso il numero delle fermate. E i casotti diventano così tanti da comporre dei veri e propri piccoli quartieri. Quando nel 1986 saranno rimossi, i cagliaritani vivranno una sorta di psicodramma.
A Sassari, un fenomeno di popolarizzazione del mare analogo a quello del Poetto si verifica nella spiaggia di Platamona sul golfo dell’Asinara che, benché più distante, diventa la spiaggia di tutta la città.
Contemporaneamente un evento rivoluzionario per la navigazione commerciale – l’introduzione dei traghetti ro-ro – nei mesi estivi porta in Sardegna decine di migliaia di turisti automuniti. Le auto finalmente possono entrare direttamente nella pancia delle navi – che non a caso la Tirrenia chiama “le autostrade del mare” – e non è più necessario, come fino al 1961, imbragarle e issarle con l’argano.

Attraverso l’invasione dei “continentali”, i Sardi cominciano a capire di avere un mare straordinario, unico, una cosa finalmente invidiata da tutti. Perché è bello e perché ha un valore, anche economico, che mai avevano sospettato. Fino ad allora, al contrario, ereditare i terreni costieri era una sfortuna. Un luogo comune consolidato dice che, proprio per questo, venivano lasciati alle figlie femmine. Un impianto che sta alla base di un aneddoto – diventato celebre e simbolico – unisce questa ignoranza sul valore del mare a quella generale sul valore dei soldi. Ed è entrato nell’immaginario comune sulla Sardegna. È la risposta – citata da Bachisio Bandinu nel suo Costa Smeralda. Come nasce una favola turistica (Rizzoli, 1980) – del pastore di Monti di Mola agli emissari dell’Aga Khan che gli offrivano un miliardo per le sue terre sul mare: «Macché un miliardo, voglio almeno 800 milioni». D’altra parte, anche Marcello Fois racconta che il padre rinunciò ad acquistare una proprietà a Porto Ottiolu che gli era stata offerta per una cifra irrisoria durante una chiacchierata al bar. Sarebbe stato un ottimo affare, ma evidentemente, quello del “primo nuorese che seppe amare il mare” era un amore davvero puro, disinteressato, cieco. Scrive Fois: «Per quanto amasse il mare, non lo amava abbastanza da comprarsene un pezzo».

L’Aga Khan, il principe Karim – benché all’epoca abbia poco più di 25 anni – invece ci vede benissimo. Proprio mentre per la maggior parte dei sardi il mare diventa un piacere di massa, comprende che quelle cale della Gallura possono diventare un piacere esclusivo e che i nababbi di mezzo mondo non baderanno a spese per goderselo. Sui Monti di Mola nasce la Costa Smeralda, una esclusiva e lussuosa enclave extraterritoriale. Produrrà molte imitazioni, a volte non meno lussuose, ma raramente altrettanto raffinate. Anzi, a volte sguaiate. Come se lo sviluppo edilizio costiero anticipasse la progressiva sostituzione degli aristocratici con gli arricchiti, fino alle veline a bordo piscina.

Poco più di dieci anni dopo, siamo negli anni Settanta, comincia a porsi un problema nuovo. Si scopre che, se tutti i piani urbanistici approvati dai comuni costieri fossero realizzati fino in fondo, fino all’ultimo mattone, il mare scomparirebbe dalla vista. E la Sardegna diventerebbe una specie di città lineare, una gigantesca ciambella di cemento. Altro che torri costiere. Ma ci vorrà del tempo, e molti conflitti politici, prima che questa constatazione porti a un intervento pubblico a tutela delle coste. La loro salvaguardia, per tutta la fase iniziale dello sviluppo urbanistico costiero, resta affidata alla sensibilità dei privati. Da questo punto di vista le “regole paesaggistiche” che si diede autonomamente il Consorzio Costa Smeralda restano un modello, molto poco imitato. I sardi hanno fatto fatica ad acquisire la consapevolezza del fatto che quella terribile distesa d’acqua che per secoli li ha terrorizzati, che li ha portati a sentenziare che i ladri vengono sempre dal mare, è in realtà fragile. Va protetta e difesa. I suoi confini terrestri vanno percorsi in punta di piedi, con la stessa amorevole cautela di quel remoto avo che per primo si tuffò per abbracciarla. Un abbraccio materno e, ne siamo sempre più convinti, a darlo fu quella ragazza di Nora.

Gli isolani, ormai, sanno bene che ci sono tante visioni del mare, proprio come ci sono tante visioni del mondo e i modi di intendere l’amore. C’è l’amore interessato degli squali della speculazione edilizia, c’è l’amore appassionato dei surfisti che – come Niccolò Porcella vincitore quest’anno del Big Wave Award per la miglior caduta del 2015 – arrivano a conquistare mari lontani e tumultuosi. Ma c’è anche l’amore criminale.

Abbiamo degli indizi ma, dobbiamo riconoscerlo quando siamo alla fine della nostra indagine, non sapremo mai il nome del primo sardo che amò il mare. Conosciamo però i nomi e anche i cognomi di quanti hanno tentato di ucciderlo. Il tentativo più ferocemente efficace, tanto che ancora oggi se ne vedono le ferite, viene messo in atto a Cagliari nel 2002, un anno dopo l’attentato alle Torri gemelle. E in effetti c’era da avere il sospetto di una consulenza di Osama Bin Laden.

Gli amministratori provinciali arrivano alla conclusione che la spiaggia del Poetto è diventata troppo piccola, troppo stretta. Come se la sabbia avesse uno sviluppo inversamente proporzionale all’aumento dei bagnanti. E in un certo senso è stato proprio così: perché tra le cause dell’erosione c’è anche, e forse soprattutto, proprio la strada che consente ai bagnanti di arrivarci comodamente. Quella striscia di asfalto ha spezzato il ritmo dettato dal vento, impedendo alla sabbia spinta verso l’entroterra, di tornare indietro. Ma va detto che molta altra di quella sabbia che sembrava talco era stata portata via, con i camion, fin dal primo dopoguerra, negli anni della ricostruzione, e negli anni Sessanta, in quelli del boom, anche edilizio. Quella sabbia è la stessa che si ritrova nelle case di molti quartieri della città.

Gli amministratori decidono di sistemare tutto in pochi giorni. S’accordano con un’impresa che piazza dei giganteschi tubi aspiranti sul fondo del mare, a qualche centinaio di metri dalla riva. La mattina il Poetto è diventato un luogo mostruoso: la sabbia scura e grossa del fondale, mista ai detriti che vi giacevano, ha sommerso quel che restava dell’arenile bianco. Non è rimasto niente di quella “spiaggia quasi africana” dell’adolescenza di Giaime Pintor. Un disastro ambientale, riconosciuto tale dalla magistratura, a cui il respiro del mare, col tempo, ha potuto porre solo parziale rimedio.

La natura “quasi africana” di tante parti della costa sarda, non solo del Poetto, era stata colta silenziosamente, discretamente, all’inizio degli anni Sessanta da altri continentali, un po’ misteriosi, che si erano curiosamente innamorati sia del mare, sia della terra. Li considerano legati in modo inscindibile e portano sulla costa orientale del sud un tipo di cemento fino ad allora sconosciuto, il cemento della nostalgia. A Costa Rei arrivano i belgi cacciati via dal Congo dopo la dichiarazione d’indipendenza. Hanno riconosciuto in quegli spazi, in quell’alternarsi di spiagge, lagune e aranceti, qualcosa di quanto hanno lasciato molto più a sud.
Se si può sostituire un intero Continente con un’Isola – che d’altra parte si ritiene un Continente – allora forse si può provare a intraprendere un altro percorso per dare la risposta alla domanda di partenza. Quello della pura immaginazione e delle suggestioni che offrono i film di un regista barbaricino, Salvatore Mereu. E riguardare la scena finale di Bellas mariposas, tratto dal libro di Sergio Atzeni, uno scrittore che ha amato il mare fino a morirne, il 6 settembre del 1995, a Carloforte.

Il mare è per Cate, l’adolescente della periferia cagliaritana, la protagonista del film, un elemento della propria natura. Nuota e, quando nuota, dimentica tutto: «Dovevo nascere pesce», pensa con insistenza. A vederla così sicura nell’acqua che cancella ogni dolore, e bruttura, il sospetto che sia stata una ragazza come Cate, una ragazza dell’epoca imperiale, quel primo sardo ad amare il mare diventa d’un tratto quasi una certezza.

Tanto da spingerci fino al punto di osare circoscrivere ulteriormente il campo d’indagine. Chiuderlo. Fu una ragazza che frequentava le terme di Nora, sul lato ovest del golfo degli Angeli. Il luogo dove, rispetto agli altri, la spiaggia è più morbida e raccolta. Uscì dalla piscina e – leggera come una mariposa – per raggiungere la riva e le onde percorse una di quelle strade lastricate che poi il mare, con il tempo, ha man mano sommerso e ripreso. Forse perché lei, riconoscente, ha voluto restituire quel primo struggente abbraccio.

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